Il costo dell’Europa che c’è, il costo dell’europa che non c’è

Prof. Mario Baldassarri
Partito Radicale – Milano – 3 novembre 2018

EXECUTIVE SUMMARY

“IL COSTO DELL’EUROPA CHE C’ È,
IL COSTO DELL’EUROPA CHE NON C’È”*

L’ANALISI che si propone è divisa in due diverse sezioni.
La prima, dedicata alle RADICI EUROPEE DELLA CRISI EUROPEA, sulla base di analisi econometriche controfattuali per il periodo 2002-2014 dimostra che la crisi che dell’Unione europea ed in particolare quella della zona euro è totalmente dovuta agli errori “endogeni europei” commessi con politiche monetarie (con conseguenti effetti sul cambio dell’euro) attuate dalla BCE di Jean-Claude Trichet e di politiche di bilancio pubblico indotte dal Trattato di Maastricht e dal Fiscal Compact che si sono mostrate, teoricamente, poco fondate ed, empiricamente, causa esse stesse delle grave crisi economica, sociale e finanziaria europea.
Se da una parte la politica monetaria non avesse aumentato i tassi di interesse in Europa quando la Federal Reserve li diminuiva drasticamente degli Stati Uniti e fosse pertanto stata attenta ad evitare il super apprezzamento dell’euro e se, dall’altra parte, le regole di Maastricht avessero almeno distinto tra spesa pubblica corrente e spesa per investimenti pubblici, i paesi dell’area euro non avrebbero subito alcuna crisi economica ed avrebbero avuto, al contrario, l’opportunità di crescere e prosperare come nella realtà storica dei decenni precedenti.
Infatti, tra il 2002 ed il 2014, il super-euro e la “stupidità” di Maastricht hanno fatto perdere alla zona euro circa il 15% di Pil e quasi 13 milioni di occupati. Di conseguenza si sono prodotte condizioni di fragilità e di crisi della finanza pubblica in vari paesi europei che non si sarebbero affatto determinate. L’intera area euro infatti avrebbe avuto minori deficit e soprattutto un minore debito pubblico pari ad oltre 3.500 miliardi di euro ed a fine 2014 il debito complessivo dell’area sarebbe stato attorno a 6.000 miliardi di euro (meno del 60% del Pil) invece che quello storicamente avuto a fine 2014 pari a oltre 9.500 miliardi di euro (oltre il 95% del Pil). Nessun paese dell’euro avrebbe pertanto avuto condizioni tali da determinare crisi da debito pubblico, Grecia inclusa che, nonostante i suoi noti trucchi e falsificazioni di bilancio, avrebbe presentato un rapporto Debito/Pil inferiore al 90% invece del dirompente 170% registrato nel 2014.
Queste stime sono state effettuate “a parità di condizioni” nel resto del Mondo e pertanto mostrano che la crisi “non viene da fuori” ma “viene da dentro l’Europa”.
Su questo vengono presentate due controprove.
La prima è che in quegli anni, innanzitutto la Cina non ha avuto alcuna crisi ed ha continuato a crescere a ritmi elevati, e tutte le altre aree del mondo che hanno avuto una crisi ne sono uscite dopo due o tre anni. Gli Stati Uniti in particolare sono entrati in crisi nel 2008 ma già nel 2010 avevano riottenuti gli stessi livelli di Pil e di occupazione che avevano prima della crisi. Al contrario l’area euro nel suo complesso appare avere recuperato tali livelli pre-crisi attorno al 2014/2015, con molti paesi che sono ancora ben lontani dai livelli di Pil e di occupazione avuti nel 2007 e come l’Italia dovranno aspettare altri dieci e più anni per tornare a quei livelli e cioè per uscire sul serio dalla crisi.
La seconda si riferisce ad una specifica analisi controfattuale che valuta cosa sarebbe successo se Draghi non ci fosse stato e se non avesse radicalmente cambiato la politica monetaria della BCE inducendo anche un riallineamento dell’euro attorno alla quotazione 1,1/1,2 sul dollaro. I risultati mostrano che se Draghi non fosse stato a Francoforte a guidare la BCE del dopo Trichet l’area euro si sarebbe totalmente involuta sul piano reale del reddito e dell’occupazione e sarebbe esplosa in termini di squilibri di finanza pubblica.
Draghi, l’euro e l’Unione Monetaria sarebbero già saltati.
A livello globale la vera crisi infatti origina da un “vecchio” governo del mondo (G7, FMI, Banca Mondiale, WTO ) che non è più in grado di affrontare il nuovo mondo. Sono urgenti e necessarie “nuove” istituzioni internazionali che coinvolgano almeno i BRICS. Occorre cioè un nuovo G8 e riforme profonde di tutte le Istituzioni Internazionali che possano governare l’espansione in equilibrio dell’economia mondiale.
In questo contesto è altrettanto necessaria ed urgente un’entità federale europea “politica” in grado di partecipare alla costruzione di un nuovo governo mondiale con le altre grandi aree del pianeta.
Ecco perché è urgente “ridefinire” l’Unione europea dando alla BCE ed al Trattato di Maastricht due occhi ciascuno. Infatti, due ciechi con un occhio solo ciascuno non costituiscono una persona sana:
1.- Lo statuto della BCE deve includere come obiettivi da perseguire sia il controllo dell’inflazione, sia la crescita economica, o quanto meno l’effetto della quotazione dell’euro sulla crescita economica, assegnando alla Banca Centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza.
2.- Maastricht deve diventare “più rigoroso e meno stupido”. E’ necessario, quindi, introdurre nei bilanci pubblici l’obiettivo di “avanzo di parte corrente” (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento) occorre permettere almeno il 2% di investimenti pubblici in parte finanziati in deficit.
Si tratta cioè di introdurre una Platinum Rule ancor più rigorosa rispetto alla Golden Rule proposta cinquant’anni fa da Robert Solow, che semplicemente proponeva di lasciare gli investimenti pubblici fuori del conto del deficit. La Platinum Rule, infatti, non sarebbe altro che il semplice inserimento di una solida leva finanziaria nelle decisioni di politica economica.
Sarebbe come per le famiglie quando decidono di comprare una casa pagando un anticipo del 30% del costo ed accendendo un mutuo per il restante 70%. Oppure come quando le aziende usano i loro profitti per finanziare il 30-40% dei loro investimenti e coprono il restante 70/60% accedendo a prestiti sul mercato.
Una federazione europea è necessaria subito per dare al vecchio continente un governo ed una sovranità nei seguenti settori: difesa e sicurezza, politica estera, politica monetaria (in gran parte c’è già con l’euro e la BCE), grandi infrastrutture, energia, ricerca, innovazione tecnologica e alta formazione di capitale umano.
Su questi temi i singoli paesi hanno da ben oltre un ventennio perso “sovranità” nazionale. Pertanto, l’unico modo per recuperare “sovranità” è quello di riappropriarsene attraverso una Federazione politica europea, non certo dissolvendo l’Europa che bene o male c’è.
È forse utopia immaginare, da una parte, un nuovo G8 oggi, che in ogni caso esiste già sulla base dei “pesi economici” dei grandi paesi rispetto all’economia mondiale, e, dall’altra parte, gli Stati Uniti d’Europa.
Tuttavia è urgente agire come se entrambi esistessero già.
Senza queste nuove ed urgenti strutture “politiche e istituzionali”, l’Europa rischia di implodere, strozzata da sovranismi e populismi senza speranza, e l’economia mondiale rischia di esplodere in una nuova grande crisi globale.

La seconda ANALISI è dedicata alle RADICI ITALIANE DELLA CRISI ITALIANA.
e pone a confronto i documenti e i dati ufficiali a partire dal Dpef del Governo Prodi/Padoa-Schioppa del 7 Luglio 2006 fino all’ultima Nota di Aggiornamento Def del 27 settembre 2018 del Governo Lega-M5S. Si tratta di 23 documenti ufficiali di finanza pubblica presentati da sette diversi governi (Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Da questa analisi risulta che “i numeri sono sempre gli stessi” e poiché i numeri parlano da soli c’è da chiedersi: “chi scrive il Def? E chi lo firma, lo legge? E chi lo scrive, lo rilegge?”.
Ad ogni buono conto la crisi italiana ha radici strettamente italiane nel costo della corruzione e dell’evasione fiscale.
Nella prima parte infatti si fa riferimento ad una stima del Costo della Corruzione e dell’Evasione fiscale, ottenuta come differenza tra l’andamento storico dell’economia italiana dal 2002 al 2014 e quello che si sarebbe realizzato qualora si fossero adottati ad inizio decennio tagli di sprechi, malversazioni e ruberie su specifiche voci di spesa pubblica corrente e si fosse fatta una concreta lotta all’evasione tale da recuperare almeno dieci miliardi all’anno.
Se quelle risorse fossero state utilizzate per sostenere la crescita e l’occupazione, l’Italia sarebbe cresciuta più della media europea e non si sarebbe avuto il raddoppio della disoccupazione la triplicazione del numero dei poveri e delle persone in difficoltà. Per di più l’economia italiana avrebbe rispettato tutti i parametri europei, compreso il famigerato Fiscal Compact e non avrebbe corso alcun rischio di crisi da debito pubblico.
In sintesi, questo “cambiamento” sarebbe vero se si concretizzasse in tre mosse da fare in Italia (tagli di spesa, tagli di tasse e più investimenti) per portare il paese ad una crescita “strutturale” sopra il 2% e tale da rendere credibile una richiesta per due mosse in Europa (reinterpretazione di Maastricht e Statuto BCE).
Purtroppo il quadro programmatico che emerge dalla Nota di Aggiornamento DEF del 27 settembre 2018 e le linee di Legge di Bilancio 2019 non modificano sostanzialmente il profilo e la composizione sia della spesa pubblica che delle entrate e, da questo punto di vista, non paiono in grado di porsi in discontinuità, come annunciato a più riprese, rispetto a quanto fatto dai governi precedenti negli ultimi dieci anni. D’altra parte però il ricorso ad un maggiore deficit e debito potrebbero aprire scenari di serio rischio finanziario e di conseguente impatto negativo sulle prospettive dell’economia reale italiana. L’andamento dello spread seguito alla pubblicazione della Nota di Aggiornamento Def ed ai confronti serrati con l’Unione europea segnalano che quel rischio è incombente e dovrebbe essere valutato con attenzione e responsabilità.
Dalla Nota di Aggiornamento Def del 27 settembre 2018 emerge infatti che, nelle sue previsioni, il governo Lega-M5S ha sovrastimato sia la crescita reale sia l’inflazione misurata dal deflatore del Pil. Per di più la manovra proposta “cambia” circa il 2,2% del totale della spesa pubblica pari a circa l’1,1% del Pil. Ecco allora che l’effetto di forte sostegno alla crescita che si prefigura nella Nota risulta non credibile. Da qui le condizioni della finanza pubblica potrebbero risultare ben peggiori di quanto previsto. In sostanza il “cambiamento” non appare proprio nella manovra proposta come prima legge di bilancio del governo Lega-M5S, la prima dei cinque anni della legislatura.
Senza intaccare i 50/60 miliardi di sprechi e ruberie della spesa pubblica ed i 100 miliardi di evasione fiscale non si realizza “nessun cambiamento strutturale” e pretendendo di fare “manovrine” finanziate con più deficit e più debito non si fa altro che avvicinare il tempo della catarsi.

*Riferimenti bibliografici:
Mario Baldassarri, The European Roots of the Euroarea crisis, errors of the past and needs for the future, Palgrave-Macmillan, London 2017
Mario Baldassarri, Le radici europee della crisi europea, le radici italiane della crisi italiana: scelte sbagliate in Europa, scelte mancate in Italia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli Cz , 2017
Mario Baldassarri, Il costo della corruzione e dell’evasione fiscale in Italia, Rubbettino Editore, 2016
Mario Baldassarri, La parola ai “numeri” e l’effetto “Draghi”, Rubbettino Editore, 2018
Mario Baldassarri, Rigore/austerità versus Crescita/occupazione?, Rubbettino Editore, 2015
Mario Baldassarri, Quarant’anni di spending review: l’Italia al bivio sui tagli di spesa, Rubbettino Editore, 2018

1 Comment

  • alfredo brambilla 23 Novembre 2018

    molto interessante.da divulgare.

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