Dopo la presa di potere in Myanmar da parte dell’esercito il 1 febbraio e l’arresto della leader Aung San Suu Kyi, la giunta militare ha assicurato la tenuta di nuove elezioni ma, anziché fissarne la data ha imposto lo stato di emergenza per un anno.
Nonostante il dispiegamento di veicoli blindati e soldati in alcune grandi città i cittadini continuano a manifestare contro i militari e chiedere il rilascio di Suu Kyi; mentre si susseguono scioperi che stanno paralizzando molte funzioni del governo.
I militari continuano a reprimere le manifestazioni nonostante le Nazioni Unite preannunciano “gravi conseguenze” se la repressione dovesse degenerare; mentre gli Stati Uniti hanno già fissato delle sanzioni e il Presidente della Commissione europea e l’Alto Rappresentate dell’UE e le maggiori cariche europee hanno condannato quanto è accaduto in Myanmar.
Aldilà delle dichiarazioni è indispensabile che la comunità internazionale, se non altro quella democratica, si adoperi affinché questo colpo di Stato non trascini un Paese già lungamente provato da anni di dittatura militare in una spirale di violenza; che vengano rilasciati tutti i prigionieri politici e che vengano messi in campo tutti gli strumenti necessari per una transizione democratica che porti il Paese a vere e libere elezioni.
Per giustificare un colpo di Stato, per reprimere i cittadini che invocano democrazia non si può invocare lo Stato di emergenza che, in questo caso, è contro lo Stato di Diritto.
Con la conseguenza che, come ricordava Marco Pannella, dove c’è strage di Diritto c’è strage di popoli.