Il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Male modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione». Sa usare parole alte e nobili, ma anche concrete, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, parlando dei penitenziari. Che si trovi a Bergamo a commemorare la scomparsa di un cappellano indomito quale era Fausto Resmini, morto un anno fa per Covid, oppure a Roma in audizioni parlamentari, la ministra ripete sempre il suo impegno per un carcere diverso. E ora, grazie ai soldi del Recovery, ha l’occasione di mettere la prima pietra del carcere che verrà. C’è un capitolo nel Piano che il Governo Draghi sta per sottomettere all’attenzione delle Camere e di Bruxelles. Titolo: «Miglioramento degli spazi e della qualità della vita nei penitenziari per adulti e minori». Spesa prevista, 132,9 milioni di euro, di cui un terzo servirà per ammodernare quattro istituti per minorenni (a Roma, Benevento, Torino e Bologna) e due terzi per costruire otto nuovi padiglioni e per una campagna di manutenzione straordinaria in altri. Saranno padiglioni di nuova concezione, prototipi di un carcere che vuole imboccare una strada diversa. Non mera detenzione, ma rieducazione alla vita sociale. E perciò avranno celle per dormirvi la notte, ma civili, quasi dei monolocali per uno o due detenuti, e poi spazi adeguati per studio, lavoro, tempo libero e sport. Il principio è scolpito nelle righe di accompagnamento: «Definire un’architettura penitenziaria di nuova concezione, che riveda le strutture carcerarie con l’obiettivo di aumentare gli spazi comuni intramurali, per ottenere e accrescere l’esperienza di una reale prospettiva del reintegro nella società e nel recupero della persona». In pratica, la ministra Cartabia ha fatto sua un’esperienza avviata dall’ex sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, Pd, che come ultimo atto del precedente governo aveva insediato una commissione con a capo un famoso architetto, Luca Zevi, vicepresidente nazionale, impegnato nel restauro degli edifici e dei centri storici, progettista del Museo della Shoah a Roma. Zevi ha spiegato la sua visione del carcere del futuro in un articolo su Il giornale dell’architettura: «Un modello di istituto di dimensioni contenute, inserito e permeabile ai contesti urbani, piuttosto che segregato in “lande desolate” e occultato da un imponente muro di recinzione. Un organismo complesso, nel quale tutti i requisiti che caratterizzano la vita libera (a eccezione, naturalmente, della libertà di muoversi all’esterno) – ovvero il diritto al lavoro, alla formazione, alla creatività, al tempo libero, allo sport, alla socialità, a una residenza in gruppi/appartamento anziché in celle allineate lungo corridoi che formano bracci e raggi – venissero garantiti, attraverso una riproduzione quanto più fedele possibile delle condizioni di un’esistenza normale, alla quale il trattamento penitenziario è chiamato a riabilitare». E infatti sembra cestinato il vecchio modello di padiglione, che a parità di dimensioni ha celle per 120 detenuti e minimi spazi comuni. Nulla per il lavoro. I nuovi 8 padiglioni che il Dap si prepara a costruire, in carceri già esistenti, avranno celle per 80 detenuti al massimo, ma con adeguati spazi per il lavoro e il tempo libero. La struttura stessa del padiglione dovrà ricordare una civile abitazione perchè l’obiettivo è rieducare il detenuto alla vita normale, non «infantilizzarlo», come ha ben detto il Garante peri diritti dei detenuti, Mauro Palma, che partecipa anch’egli ai lavori della commissione. Oltre che in tanti Paesi europei, un modello di questo carcere nuovo in Italia esiste già. Si trova a Bollate, fuori Milano, dove i detenuti lavorano e studiano tutto il giorno e poi rientrano in cella per le 8 ore della notte. Si preparano così al ritorno nella società. Ed è dimostrato dalle statistiche che qui la recidiva è minima rispetto alle medie. E non è un caso se a Bollate la vita quotidiana scorre senza particolari tensioni, come non manca di segnalare la polizia penitenziaria. I nuovi padiglioni saranno sostenibili ecologicamente, cablati e digitalizzati. La cablatura servirà per tenere corsi a distanza, ma anche per la telemedicina, e per la videosorveglianza. La scommessa è questa, ovviamente per detenuti a basso rischio. «Il carcere – ha concluso infatti la ministra a Bergamo – non è una realtà omogenea. Chi conosce il carcere da vicino sa bene che è una realtà che ha tanti volti diversi e ha bisogno di strumenti adeguati ad ogni condizione: la risposta che l’ordinamento deve approntare di fronte al crimine commesso da un ragazzo che si è fatto intrappolare nella rete della tossicodipendenza non può essere la stessa di chi ha commesso una violenza sessuale o di chi partecipa al crimine organizzato
La Stampa 20-04-2021
di Francesco Grignetti