Gli scandalosi tempi della nostra giustizia/Deve farsi 6 anni di carcere Dal reato ne sono passati 20

Antonio Luzi, manager di Bank of America ai tempi del crac Parmalat, assolto in altri processi, ora è stato condannato. Ma ha cambiato completamente vita, fa il gelataio. «E sono innocente» Diciotto anni dopo non è giustizia. Diciotto anni dopo è accanimento.

E, signori, diciamocelo subito: siam sempre qui, a lamentarci che in questo Paese non paga mai nessuno, che i colpevoli la fanno franca troppo spesso, che le vittime finiscono per esserlo due volte. Tutto vero. Però se i tribunali impiegano due decenni (o forse un filino in meno) per arrivare a una sentenza (e pure di primo grado), qualche problema c’è ed è nel sistema. Perché nel frattempo può capitare, come è successo al signor Antonio Luzi, di cambiare vita. Di mettersi l’anima in pace, di non c’entrarci più un fico secco con i guai dei primi Duemila. Lui, Luzi, adesso

fa il gelataio. Ha cinquant’anni ed è bravo nel suo lavoro: talmente bravo che la bottega artigianale Maki che gestisce, a Fano, nelle Marche, di premi ne ha vinti parecchi. I suoi coni sono tra i migliori d’Italia, da leccarsi (letteralmente) i baffi. Solo che a cimentarsi con vaniglia e pistacchio, Luzi, ha iniziato appena nel 2005: prima viveva a Milano, aveva un impiego in una filiale della Bank of America e faceva parte del team Corporate finance and relationship, quello che è rimasto impigliato nei faldoni del crac Parmalat.

Tocca tornare indietro con la memoria e rispolverare un tempo che non c’è più. Era il 2003 quando noi che di economia ne mastichiamo poca abbiamo scoperto il significato della parola “aggiotaggio” grazie ai titoloni dei giornali che rimbalzavano lo scandalo che aveva travolto Calisto Tanzi. Non si parlava d’altro. A palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi, in Vaticano Giovanni Paolo II. Una vita fa. E infatti, per Luzi, era davvero un’altra esistenza. Venne fuori, allora, che l’istituto di credito statunitense foraggiava dal 1996 il gruppo Tanzi con prestiti anche sostanziosi (complessivamente, circa un miliardo di euro) nonostante la Parmalat fosse sull’orlo del fallimento da anni. Un calderone senza precedenti che aveva messo i suoi tentatoci anche nell’ufficio di Luzi, che però, all’epoca, non era manco trentenne ed era fresco fresco di contratto a tempo indeterminato dopo uno stage fatto a Chicago.

Oggi, cioè quasi vent’anni dopo, il tribunale di Parma lo condanna per bancarotta fraudolenta a sei anni di carcere con la confisca di 936.800 dollari (dei quali, tra parentesi, sono già dieci anni che lui non dispone perché da due lustri sono sotto sequestro). Quando si dice, un processo lampo. Anzi, no: perché qui è tutto anziché celere. «È una storia che sembra non finire mai», racconta da dietro il bancone della sua gelateria intervistato dall’edizione locale de Il resto del Carlino. «Non ci sono ancora le motivazioni, ma saprò

difendermi in appello per dimostrare la mia innocenza. Ho fiducia, come ne ho avuta nei precedenti processi di Milano da cui sono stato assolto. E persino in Svizzera, dove il caso è stato archiviato. Spero

che un giorno tutto questo finisca». Negli ultimi due decenni, Luzi, non è scappato ai Caraibi e non ha riparato in un paradiso fiscale, è stato qui. In Italia. Nella sua Fano (dove è nato) a fare gelati. Di più: «Ha

collaborato con la giustizia», specifica il suo difensore, l’avvocato milanese Federico Papa, «ha reso numerosi interrogatori, ha deposto come testimone nel procedimento civile americano ed è stato assolto»

dal tribunale della Madonnina «in ordine alle medesime operazioni finanziarie». Invece niente. Un giorno,

dopo oltre diciotto anni dai fatti, gli arriva la mazzata. «Una condanna inaspettata che ci ha scioccato», continua Papa, visto che il suo assistito, nel 2004, si è (nell’ordine) prima dimesso dalla Bank of America e ha poi deciso che quel mondo, quello della finanza e dei miliardi che girano alla velocità della luce, nonostante una laurea in un’università prestigiosa come la Bocconi di Milano, non gli apparteneva più. «Faremo appello – promette l’avvocato, – sicuri che la giustizia riconoscerà la sua innocenza». Vedremo quanto tempo servirà ancora e non promette nulla di buono: per scrivere le paginette di motivazioni (formalità che, generalmente, le toghe sbrigano in novanta giorni), i giudici di Parma si sono presi sei mesi. Cioè il doppio. Ma tanto c’è tempo.

Di Claudia Osmetti – Libero 24 agosto 2022

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