“Una campagna elettorale fondata sulla spesa pubblica. Chi pagherà il debito?”, trascrizione evento del Partito Radicale

Trascrizione dell’evento di sabato 10 settembre organizzato dal Partito Radicale con il Prof. Mario Baldassarri, già Viceministro dell’Economia e Finanze. 

Andrea Piani 

Buongiorno a tutti, ai presenti qui a via di Torre Argentina presso la sede del Partito Radicale e a chi ci sta seguendo sui social e su Radio Radicale, in diretta. Oggi a questo evento organizzato dal Partito Radicale parleremo di debito pubblico, di campagna elettorale e dei programmi dei partiti con un ospite speciale. Io sono Andrea Piani, consigliere generale del Partito Radicale e assieme a Gaia Fiorini, militante del Partito Radicale, e a Giacomo Melilla, membro della Tesoreria del Partito, modererò questo evento. Il nostro ospite, che molti conoscono già, è Mario Baldassarri, economista, professore universitario, è stato Viceministro dell’Economia e delle Finanze, parlamentare di Alleanza Nazionale, poi PDL e infine di Futuro e Libertà del leader Gianfranco Fini. È stato immagino uno dei primi italiani a studiare al MIT. È diventato professore universitario giovanissimo e, fra i vari incarichi che ha ricoperto, è stato consigliere d’amministrazione di ENI e consigliere economico per vari ministeri e per Confindustria.  Oggi è presidente del Centro Studi Economia Reale. Mario Baldassarri dialogherà con i giovani radicali presenti presso la sede del Partito Radicale e risponderà alle nostre domande. È presente anche Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale. So che Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, non riesce ad essere presente oggi in sede, ma sta seguendo il nostro incontro su Radio Radicale. Prima di lasciare la parola a Gaia Fiorini e Mario Baldassarri ci tengo a dire che oggi non ci troveremmo a parlare di debito pubblico se avessimo ascoltato Marco Pannella che ci aveva avvisati per tempo dei problemi e dei rischi della formazione di un debito pubblico enorme, derivante dalle scelte irresponsabili, clientelari e mafiose del sistema partitocratico della Prima Repubblica. Già nel 1981 i radicali portarono in parlamento una proposta di riduzione del debito. Nell’81 il rapporto debito PIL era del 60%, oggi è intorno al 150%. Ai giorni nostri i giovani si trovano a pagare le conseguenze dell’irresponsabilità, dell’immoralità e del ladrocinio della Prima Repubblica. Pannella, non a seguito della crisi del debito del 2011 ma già negli anni ’80 ci aveva visto lungo, definendo le pensioni a 50 anni una “coglionata”, denunciando le pensioni di invalidità date a chi non ne ha bisogno e mettendo in guardia da una crescita della spesa per il welfare slegata dalla crescita delle entrate. Ci troviamo cosí, in questo momento di campagna elettorale a volere e a dovere parlare di questo tema importante che passa sempre in secondo o terzo piano. Do ora la parola a Gaia Fiorini.

Gaia Fiorini

Buongiorno a tutti, ringrazio Andrea per la parola.  Ritengo che in questo momento di campagna elettorale sia molto importante parlare del debito pubblico vista la situazione dell’Italia. A luglio 2022 il debito ammontava a 2774 miliardi di euro, che in rapporto al PIL è del 152,6% . È una percentuale molto alta anche perché l’Italia, come gli altri Stati dell’Unione europea, deve rispettare il Patto di Stabilità e Crescita stipulato e sottoscritto nel 1997 che pone dei limiti sia per quanto riguarda il deficit sia il debito: il deficit pubblico non dovrebbe superare il 3%, mentre il debito pubblico dovrebbe rimanere al di sotto del 60%. Bisogna comunque ricordare che il Patto di Stabilità e Crescita è sospeso da marzo 2020 a causa della pandemia e rimarrà sospeso fino al 2023 vista l’estrema instabilità che ha provocato la guerra in Ucraina. Alcune nozioni base: per deficit pubblico si intende la differenza tra il gettito fiscale e la spesa pubblica ovvero la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato, mentre per debito pubblico si intende il debito contratto dallo Stato per soddisfare il proprio fabbisogno. Noi del Partito Radicale riteniamo che sia molto importante parlare di debito pubblico in questo momento anche perché manca l’informazione; infatti, ad oggi, vediamo che numerosi Partiti e anche molti giornali non accennano nemmeno al debito pubblico; tra l’altro molte promesse elettorali non fanno riferimento al modo in cui verranno coperte le spese e nei programmi nemmeno si accenna al contenimento o alla riduzione del debito pubblico. Passo ora la parola a Mario Baldassarri che magari vorrà ampliare le informazioni che che ho dato.

Mario Baldassarri

Innanzitutto grazie per questa occasione di incontro e di riflessione. Il Partito Radicale, per sua natura, prima riflette e poi propone. Forse qualcuno di voi sa che tutti i lunedì mattina ormai da 389 settimane su Radio Radicale ho una piccola rubrica, nella quale commento le notizie e i dati della settimana, che abbiamo chiamato sin dall’inizio “Capire per conoscere”. Questo perché il grande Einaudi disse: “conoscere per deliberare”. Ci siamo accorti che negli ultimi anni c’è stato un divario tra la comprensione e la conoscenza.

Due piccole precisazioni sul curriculum vitae: una molto “antica” ed una molto recente. Quella “antica”: nel 1978 Mario Draghi ed io siamo stati i primi due italiani non a studiare al MIT ma a prendere il dottorato di ricerca, che vuol dire quattro anni intensi di studio, non una passeggiata. Quella più recente:  da pochi mesi mi hanno chiesto di assumere la Presidenza di un Istituto per me molto importante: l’Istituto Adriano Olivetti ad Ancona. Per me è importante perché venne fondato sessant’anni fa dal mio primo maestro di economia Giorgio Fuà mentre io ero ancora uno studente di economia, quindi l’ho visto nascere.  Mi hanno chiesto qualche mese fa di assumere la Presidenza e di rilanciare e rinnovare le antiche radici.

Nel 1967 l’università italiana finiva con la laurea e non era possibile conseguire master o dottorati. Giorgio ebbe fra i primi in Italia l’intuizione di fare un master post laurea ad Ancona, in quella che all’epoca era una facoltà di economia molto nuova, molto innovativa e molto vivace ed è per questo che con grande entusiasmo ho assunto questo impegno ad Ancona e proprio il 7-8 ottobre faremo un’importante convegno sulle previsioni dell’economia mondiale europea e italiana, che è quello che faccio da 15 anni anche col mio “Centro Studi Economia Reale” qui a Roma. La data dell’inaugurazione non è stata scelta a caso: il primo motivo è che il 25 settembre ci sarà la tornata elettorale, ma il 7 ottobre probabilmente non avremmo ancora un nuovo governo e quindi in quel momento forse sarà utile che si discuta, si dibatta e si proponga. Ci sarà un piccola voce che partirà da Ancona: economisti da tutta Europa e da tutto il mondo che contribuiranno a dare al nuovo governo (indipendentemente da chi vincerà le elezioni) qualche elemento di analisi e di proposta. Non a caso ho chiamato questo forum il “Monte Conero Adriatic Economic Forum”, da questo piccolo promontorio a metà dell’Adriatico che guarda anche ovviamente ai Balcani. Ho scelto questa data anche perché la settimana successiva cominceranno i primi nuovi master per giovani con laurea triennale.

Si può dire che a metà anni ‘70 non si conoscesse all’esterno cosa succedeva dentro il “Palazzo” invece voi che siete giovani sentite tutti i giorni  “dentro ma fuori dal Palazzo”. In quegli anni non si entrava nel Palazzo se non fisicamente e io casualmente da giovane economista collaborai per tantissimi anni con Nino Andreatta, anche quando era ministro del Tesoro, quindi da giovane io “entravo nel Palazzo”. Mi ricordo che all’inizio c’era una trasmissione quasi pirata che noi prendevamo con difficoltà sulla radio in macchina o a casa: era Radio Radicale che cominciava a trasmettere le sedute parlamentari, le sedute delle commissioni. Fu proprio in quel periodo che conobbi Marco Pannella. In un periodo successivo si consolidò questo enorme e storicamente rilevante servizio pubblico rappresentato da Radio Radicale che qualcuno periodicamente cerca di far tacere. Radio Radicale è importante non solo per le sedute parlamentari ma anche per le analisi a 360 gradi. È aperta a tutte le voci. Questa è una piccola testimonianza da parte di un vecchietto come me che oggi compie 76 anni. Il motivo per il quale sono venuto è che è il mio compleanno e quindi lo festeggio con voi qui in sala e con chi ci ascolta. Siete i primi con i quali ho piacere di festeggiare il mio compleanno. Ovviamente ci sarà spazio per figli e nipoti stasera e domani. C’è bisogno che voi conosciate queste memorie storiche: quanti dei vostri coetanei presi da Facebook, Tik Tok le conoscono? Questo è un fatto storico: abbiamo un servizio pubblico che qualcuno ogni anno cerca di chiudere e siccome io sono anche un credente cattolico, dico che la Provvidenza ha protetto anche Radio Radicale e non lo dico a caso. Da giovane economista cominciai ad occuparmi di debito pubblico insieme a Marco Pannella e ad altri amici radicali come Sergio Stanzani. Io ed altri economisti trasmettevamo i nostri studi, le nostre argomentazioni ai politici che li recepivano e sollevavano i problemi economici nell’arena politica. Devo fare tre premesse. Mi scuso se faccio il professore ma è il mio mestiere da cinquant’anni, per scelta. Mi dimisi proprio in quegli anni dalla Banca d’Italia perché volevo fare il professore all’università e quindi acquisire un profilo professionale molto diverso, nonostante la paga piuttosto bassa di un professore universitario all’epoca. Ho sempre voluto fare un lavoro che mi diverte: se il lavoro ti diverte non pesa, se non ti diverte pesa. La prima premessa è la seguente: le analisi, le idee e le proposte vengono da molto lontano. Una persona non può alzarsi di mattina con l’idea in testa di abolire la povertà, poi andare sul balcone di Palazzo Chigi e annunciare “abbiamo abolito la povertà”. Questo non è un riferimento né personale né politico è semplicemente un esempio e ve ne potrei fare decine di questo tipo. Le idee vengono da lontano e la mia idea – che è il filo conduttore di tutti i miei cinquant’anni da economista – è l’analisi di come il bilancio pubblico impatta sull’ economia reale, sulla crescita, sull’occupazione, sulla distribuzione dei redditi. Questo è il filo conduttore dei miei studi.  Pensate che nel ‘69 il titolo della mia laurea ad Ancona era “Gli effetti della spesa pubblica nei paesi della CEE” (allora l’Unione Europea si chiamava Comunità economica europea) e non a caso il titolo della mia tesi di dottorato al MIT con Robert Solow, Franco Modigliani e Paul Samuelson, tutti e tre premi Nobel, è “Spesa pubblica, inflazione e crescita”. Quando Solow prese il Nobel, qualche anno dopo, lo chiamai a casa: “finalmente hanno dato il Nobel anche a te! Io ora ho tre firme della mia tesi di dottorato, due erano già premi Nobel, mancavi solo tu!” La tesi, svolta prevalentemente con la supervisione di Robert Solow,  è incentrata sulla teoria della crescita. Nell’ambito della teoria della crescita, ho messo a fuoco qual è l’impatto del bilancio pubblico sulla crescita e sull’occupazione.

Qualcuno o molti di voi conosceranno la “Golden Rule” , un lavoro di Robert Solow che aveva fatto una quindicina d’ anni prima della mia tesi. Io, avendo lui come maestro, ho dovuto approfondire l’ argomento tant’è che lui come battuta mi disse “come sempre gli allievi superano i maestri”. La Golden Rule dice semplicemente qual è la regola fondante per tenere sotto controllo il debito pubblico. Come tutte le grandi teorie e i grandi teoremi di tutte le scienze, essi nascono da una il ragionamento anche banale: in questo caso, se il tasso di crescita dell’ economia cioè del PIL supera il tasso di interesse (che è quello che poi devi pagare sul debito pubblico), il rapporto debito/PIL scende. E’ quasi aritmetica ma prima di lui nessuno lo aveva notato. Se il tasso di crescita dell’ economia è più basso del tasso di interesse, è ovvio che il debito cresce anche se non fai più deficit: il debito cresce pagando gli interessi; se l’ economia cresce meno, il rapporto debito/PIL tende a crescere e la conseguenza – quello che gli economisti accademici chiamano ”lemma”, ossia quali sono le conseguenze di ciò – è che non conta tanto qual è il rapporto debito/PIL ma conta molto di più la sua tendenza. Se tende a crescere, i mercati pensano sia una situazione insostenibile, poiché se cresce all’ infinito tu “non me lo ripaghi” e io quindi non ti do più i soldi per i nuovi titoli; se tende a diminuire, allora i mercati sono un po’ più “confidenti” e siccome diminuisce forse il debito verrà ripagherà e quindi comprerò i nuovi titoli. Questo è l’ enorme contributo che, a cavallo tra gli anni’50 e ‘60, diedero Robert Solow, Paul Samuelson e Franco Modigliani. Allora io ho pensato: “che passo in avanti posso fare rispetto a questo punto?”. Ho individuato quindi – pubblicato in italiano sul Il Mulino già nel ‘79 e ripubblicato per la prima volta in inglese in volume due o tre anni fa per Macmillan – quella che ho chiamato la “Platinum Rule”: dopo la regola d’ oro, la regola di platino. Ho pensato: “se noi facciamo riferimento solo ai saldi di finanza pubblica cioè al deficit annuale e al debito che si accumula anno dopo anno, perdiamo di vista qual è l’ effetto sull’ economia della spesa e delle entrate, perché il deficit è la differenza tra la spesa e le entrate. Ma quello che entra nell’ economia non è il deficit: entrano indipendentemente la spesa pubblica e le entrate che escono dalle tasche delle famiglie e delle imprese. Quello è il vero impatto del bilancio pubblico, non può limitarsi a vedere qual è l’ effetto del deficit. E la prima articolazione che sarebbe venuta in mente anche a voi tutti è quella che direbbe: cominciamo a distinguere spesa corrente (consumi) da spesa pubblica per investimenti. Ho fatto questa distinzione teorica e allora cambia tutto per cui quella regola d’ oro (Golden Rule) di Robert Solow va qualificata, perché se uno si chiede “qual è l’ impatto del bilancio pubblico sull’economia?”, la risposta è “ora vediamo”. Questo perché dipende proprio da quale è la motivazione della spesa: se fai spesa per investimenti, aumenti il capitale pubblico sociale, quindi aumenti la produttività totale dei fattori e quindi aumenti il tasso di crescita. Questa è la Platinum Rule, cosa totalmente dimenticata in decenni e decenni ed è il ragionamento sul piano politico che ha sempre fatto Marco Pannella. Con il Partito Radicale abbiamo fatto decine e decine di incontri su questo tema ai congressi a Chianciano e sempre questo era il ragionamento per diffondere un po’ di conoscenza. Se andate a guardare gli ultimi decenni, negli ultimi anni, negli ultimi mesi o gli ultimi giorni, il dibattito sulla politica economica sembra che esista solo discutendo se c’è da fare più deficit o meno deficit, cioè la politica economica si è risolta nel dire: si può fare, se posso fare “buffi”, se non posso fare “buffi” non posso fare la politica economica e questa è una balla gigantesca. Perché mai oggi in Italia la spesa pubblica totale equivale a 950 miliardi di euro all’ anno e il totale delle tasse che incassiamo in vari modi sono 850 miliardi di euro all’ anno? è lì che devi fare la politica economica. La politica economica non è fare uno scostamento di bilancio dopo l’ altro, cioè  deficit e debito ma rendere conto ai cittadini dei 950 miliardi di spesa e 850 miliardi di tasse a parità di deficit e debito. E se possibile con un debito che scende. Questa è la politica economica. Ora ditemi voi se questo approccio lo riscontrate nei dibattiti in corso e anche in questa campagna elettorale. Attenzione, l’ anno scorso Ignazio Visco, anche lui dottorato ma in Pennsylvania nello stesso anno mio e di Mario Draghi, governatore della Banca d’ Italia, disse esattamente questa cosa; questo per farvi capire che quando alcuni ragazzotti giovani italiani sono andati negli Stati Uniti, non sono andati a cambiar aria: abbiamo appreso dai maestri e cercato di tradurre l’ intero, ciascuno nel proprio ruolo. Ora c’è chi fa il professore universitario, chi fa prima il presidente della BCE, poi il Presidente del Consiglio italiano e chi il governatore della Banca d’ Italia. Il ragionamento generale è coerente perché le radici della formazione e dell’ approfondimento sono abbastanza comuni. Visco l’ anno scorso ha detto che “la madre di tutte le riforme è la ristrutturazione del bilancio pubblico dal lato delle spese e dal lato delle entrate, non a parità” e questo è un primo punto che vi prego di annotare. La politica economica non è quella che discute se fare più o meno deficit e debito: potrebbe anche darsi, nel senso che sì in alcune contingenze (essendo tutti noi di matrice keynesiana non rifiutiamo deficit/debito) ma la mia personale qualificazione teorica è “prima dimmi che ci fai”, quindi prima di dirmi che tu fai debito fammi capire perché lo fai. Ecco, questa si chiama Platinum Rule. Seconda cosa: uno dei padri dell’economia moderna come Ricardo fece il teorema dell’ indifferenza e cioè fece capire che quando tu decidi di fare deficit e debito, può alla fine risultare indifferente perché di fronte a un’esigenza di spesa, tu hai due modi per rispondere: o aumenti le tasse per coprirla o la fai a caso a deficit e lui fece vedere che questo però nel lungo termine può essere indifferente, perché le tasse sono tasse di oggi pagate dai cittadini di oggi, il deficit del debito sono tasse di domani pagate dei cittadini di domani, quindi può essere indifferente questa copertura. La cosiddetta indifferenza Ricardiana. Attenzione però, è evidente che si determina un’ enorme redistribuzione intergenerazionale. E’ differente se facciamo la somma del lungo termine sommando cittadini presenti e cittadini futuri, però ripeto: c’è una redistribuzione tra attuali generazioni e future generazioni. Seconda cosa: all’ Unità d’ Italia nel 1861 il debito pubblico italiano, dati Banca d’ Italia ricostruiti in Euro, era un miliardo e 700 milioni e il rapporto sul PIL dell’ epoca era 37%. Ovviamente il rapporto debito PIL tende a crescere durante le guerre e poi abbiamo la stabilizzazione dopo le guerre: sale nella prima guerra mondiale, poi scende e risale nella seconda guerra mondiale. Nel 1942, nel pieno della guerra, il debito italiano da 1,7 miliardi era aumentato a 190 miliardi di euro e rappresentava il 114% del PIL. Quando arriva la stabilizzazione di Einaudi (1947-1948) il debito aumenta, perché con l’ inflazione, dopo la guerra, da 190 miliardi sale a 915 miliardi nel ‘47 ma in rapporto al PIL crolla al 25%. La cosa sorprendente è che, tenendo presente l’ aspetto teorico ossia la distinzione fra spesa corrente e spesa per investimenti, questo porta ad un’ altra distinzione importante e cioè all’ errore fatto dall’ Unione Europea nel Trattato di Maastricht di tirar fuori dal cappello un parametro puramente finanziario del tutto insignificante dal punto di vista dell’ economia reale. Questo parametro si chiama avanzo primario: non serve a nulla. E’ aritmetico e finanziario e fu stabilito in modo miope dagli ambienti finanziari. Che cosa vuol dire l’ avanzo primario: che se io tolgo gli interessi della spesa pubblica, voglio vedere se le entrate superano le spese; se superano le spese vuol dire che su quel pezzetto mi pagherai gli interessi sul debito e quindi mi garantisco che almeno gli interessi sul debito vengano ripagati. Dal punto di vista dell’economia reale conta l’ avanzo o disavanzo corrente e cioè: se io metto da una parte gli investimenti pubblici, il bilancio pubblico – a parte gli investimenti – è in equilibrio, è in avanzo o in disavanzo. Se è in disavanzo vuol dire che io mi sto indebitando per spese di consumo quindi sto minando le basi produttive dell’ economia, se è in avanzo, come tutte le famiglie, c’è quell’ avanzo corrente che va in parte a finanziare le spese di investimento: è il gruzzoletto che chiunque mette da parte quando vuol comprare una casa. Ossia risparmio il 30%, pago l’ anticipo e per il 70% faccio il mutuo. Lo Stato funziona allo stesso modo: se ho un avanzo corrente, quello in parte lo uso per finanziare investimenti, se non vi basta faccio il mutuo cioè faccio deficit e debito ma li faccio per investimenti. La cosa sorprendente è che negli anni ‘50 e ‘60 fino al 1970, quindi gli anni del miracolo economico e del grande boom della trasformazione dell’ economia italiana, della trasformazione della società, del passaggio dall’ economia agricola ad un’economia manifatturiera, l’ Italia ha sempre avuto un bilancio pubblico con avanzo di parte corrente anche se piccolino; questo  vuol dire che tutti gli investimenti pubblici fatti dal ‘47 al ‘70 erano in parte finanziati dall’ avanzo corrente e che per la differenza abbiamo fatto debito. Ma nel 1960 il debito era salito a 4 miliardi di euro e in rapporto al PIL era 32%. Addirittura negli anni successivi, nel 1964/1965, eravamo scesi al 27%. Nel 1970 eravamo un po’ risaliti. In quegli anni c’è ancora l’ avanzo di parte corrente, il debito pubblico era 14 miliardi quando io mi sono laureato nel 1969, il debito pubblico era 11 miliardi di euro, il 36% del PIL. Quindi il primo punto: il debito pubblico si dimostra storicamente che non sempre aiuta a fare crescita occupazione perché l’ Italia che cresceva del 5% medio all’ anno, per 15 anni, in quegli anni lo ha fatto con un bilancio con avanzo corrente ma con forte spesa di investimenti e senza avere un rapporto dirompente debito PIL, anzi tenendolo sotto controllo. Quindi l’ equazione “più debito, più crescita” scordatevela perché è falsa; sarebbe vera se fosse più debito più investimenti, allora forse più crescita, quindi tutto nasce negli anni ‘70.  Arriviamo ad un picco del 121% nel 1995, che sembrava una cosa insostenibile. Poi c’è stata la stabilizzazione ciampiana e si è scesi a 106. Eravamo balzati a 1660 miliardi di euro di debito pubblico. Negli ultimi trent’anni è avvenuto questo: quest’anno arriveremo a 2800 miliardi di debito pubblico. Ci vogliono anni affinché i titoli si trasformino in conti sui titoli. Siamo ben al di là del 150%. Io ho convissuto con tutti i governi che si sono susseguiti: ognuno di questi ha detto che avrebbe tagliato le tasse, ridotto il debito e tagliato la spesa. Invece questi indicatori non fanno altro che salire. Nel ‘90 il debito era 667 miliardi e in trent’anni siamo arrivati a 2800 miliardi. Il trucco è molto semplice, simile al discorso del gas di Amsterdam, dove noi europei abbiamo agganciato il prezzo del gas nostro. Quel mercato ha aumentato il prezzo del gas del 900%, mentre i prezzi all’importazione del gas nei paesi europei sono aumentati del 70%. Ecco dove nascono gli extraprofitti. Dove sono le agenzie che dovrebbero controllare questo? In più qui abbiamo agganciato la luce al gas, stiamo discutendo da mesi su come uscirne, sicuramente il price cap non è un’opzione. Bastava dire che il prezzo del gas lo fa il mercato vero. In Italia, si potrebbe dire che la bolletta della luce è diversa da quella del gas se non per una quota del 40%. Se il gas è aumentato del 70% e il gas pesa per il 40% allora l’aumento in bolletta dovrebbe essere del 28%. Il debito, dunque, è sempre aumentato. Gli aumenti delle tasse sono stati fatti pagare ai cittadini, i tagli di spesa sono stati tagli finti. Anche le coperture sono sempre un problema perché sia il deficit, sia l’aumento delle tasse sono impopolari. Sulla tassazione si potrebbe lavorare su delle nuove aliquote dell’IRPEF. Inoltre un altro paradosso è che si spende 17 miliardi di euro l’anno per incentivare le fonti rinnovabili, ma ne diamo 18 per incentivare le fonti fossili. Di quale politica dell’ambiente stiamo parlando?

Alice Polzoni: Nell’ambito della differenza tra investimento e spesa corrente, quando i partiti fanno delle proposte, come possiamo  noi cittadini comprendere come le promesse fatte siano un investimento sensato o solo uno spreco di soldi? Seconda domanda: quando si parla di tassazione progressiva si dice esiste una distorsione dell’attore economico? Se sì quanto è grande?

Mario Baldassari: Per quanto riguarda la spesa bisogna leggere attentamente le proposte. Gli investimenti non sono facili da fare perché richiedono un progetto, tempo e manutenzione, per questo non sono comuni. Sulla tassazione bisogna partire da un dato di fatto per cui bisogna essere consapevoli: l’attuale IRPEF è regressiva e incostituzionale. L’80% del totale è pagato da dipendenti e pensionati e il 70% dell’80% pagato da stipendi annuali inferiori a 55mila euro. Le rendite finanziarie sono fuori, le cedolari sono fuori, i titoli di stato sono fuori. A tutto questo va aggiunta l’evasione. Se si fa una proposta di nuova IRPEF bisogna partire dal dato di fatto di oggi. Qualunque proposta va confrontata con il modello che abbiamo, non con i modelli teorici. Si può fare anche una flat tax progressiva, ad esempio con una forte riduzione alla base, ad esempio sotto i 20 mila euro si potrebbero non pagare le tasse. Si propone una tassazione progressiva divisa in 4 scaglioni: 0-20mila euro annuali 0 tasse, da 20mila a 100mila euro annuali il 23% di tassazione, da 100mila a 300mila il 33% e sopra i 300mila il 43%. Io non sono per la flat tax, io sono per un IRPEF a tre aliquote con scaglioni larghi quindi 23/33/43 ma 23 fino almeno a 100mila euro, 33 sopra i 100mila euro, 43 sopra i 300mila euro. Questa è la logica. Con una forte detrazione alla base di reddito non tassabile (quella che chiamano la no tax area). Qui qualcuno ipercritico potrebbe dire: “eh ma ci sono gli incapienti”, cioè coloro che non potrebbero usufruire di questa detassazione della no tax area perché non hanno abbastanza reddito. Guardate che l’ acqua calda è stata inventata da decenni, si chiama “negative income tax”: l’ incapiente che ha dodici mila euro di reddito, quando la sua famiglia dovrebbe non pagare le tasse fino a 20mila euro, riceve  dall’ INPS come per gli assegni familiari otto mila euro di differenza. Cioè, se tu stai sopra paghi l’IRPEF, se stai sotto ti do la differenza e creo un’ area di “no tax area”. Questa cosa è stata già inventata, ripeto, si chiama “negative income”, ed ecco allora anche qui che le proposte di riforma della tassazione e in particolare dell’ IRPEF hanno valutato, alla luce di questo ragionamento, una prima cosa: l’ attuale IRPEF è regressiva; seconda cosa: le varie forme proposte di IRPEF vanno valutate confrontandoci con ciò che dice la Costituzione ossia progressività verticale e progressività orizzontale. Infine, senza una seria lotta all’ evasione, hai voglia a fare riforme dell’ IRPEF fiscali. La lotta all’ evasione si fa solo in due modi: con quella che io chiamo da più di trent’ anni “la tenaglia”. In che modo? uno: dando la possibilità delle detrazioni per i servizi per la casa, per la sanità, per l’ assistenza agli anziani, quindi incentivare la fatturazione. Avete visto che la fatturazione elettronica immediatamente qualche risultato l’ ha dato. L’ altro lato della tenaglia sono sicuramente gli accertamenti. Io ho partecipato alla fine degli anni settanta al ministero delle Finanze con l’ allora ministro delle Finanze Franco Maria Malfatti a costruire il nuovo sistema fiscale e uno dei perni erano gli accertamenti con la Sogei. Noi abbiamo il miglior sistema tecnologico, forse fra i migliori al mondo nel campo del fisco Successivamente da viceministro all’ Economia nel 2001 mi sono trovato a scoprire che noi per qualche anno abbiamo avuto un’anagrafe tributaria privata. Questo nessuno l’ha notato perché quando si privatizzò la Telecom dentro c’ era la Sogei e dentro di fatto c’era l’ anagrafe tributaria. Per due o tre anni l’ anagrafe tributaria italiana è stata dentro un gruppo privato, tant’ è che io dovetti trattare con l’ allora Amministratore Tronchetti Provera su come ricomprare come ministero del Tesoro la Sogei e la RAI retribuitaria. Poi si fece un compromesso ma l’ anagrafe tributaria italiana ha una base tecnologica formidabile. C’è solo un piccolo problema, che è quello degli incroci delle banche dati. Già all’ epoca io dissi che l’anagrafe era in grado di incrociare le dichiarazioni con il catasto, il registro automobilistico, navale, aeronautico, le bollette, i conti correnti bancari e le carte di credito. Facciamo un esempio: Luigi Rossi ha dichiarato 30mila euro l’ anno, ha movimentato 300mila euro nel conto corrente bancario, ha movimentato 60mila euro di carte di credito, paga 500 euro al mese di bollette, ha 3 automobili e 4 appartamenti. Allora io al telefono dico al Sig. Rossi se può venire a spiegare il perché. Quindi la lotta all’ evasione non si fa con le chiacchiere e gli annunci ma si fa  concretamente con questi due lati della tenaglia: deduzioni per spese riconoscibili, incroci e accertamenti. Se l’ avessimo cominciato a fare trent’anni fa forse oggi il livello di evasione sarebbe un pochino più fisiologico ma è evidente che la riforma fiscale e dell’ IRPEF non può essere fatta senza la gamba della cosiddetta lotta all’ evasione, specificando però che vuol dire la lotta all’ evasione. Non vuol dire mettere il limite dei contanti, non vuol dire far fare alla gente dichiarazioni ogni volta che va in banca.

Andrea Piani: “La tenaglia quindi è un bastone e carota diciamo”

Mario Baldassarri: ”Più bastone che carota”. 

Chiara Bellusci: Due giorni fa la Bce ha annunciato il più grande aumento dei tassi d’ interesse della sua storia per contenere l’ aumento dell’ inflazione, quindi volevo chiederle quali sono i pericoli di questa mossa per l’ eurozona e se aumenta il rischio di recessione. La seconda invece: l’ UBS prospetta tre pericoli per l’ Italia in caso di vittoria del centrodestra alle prossime elezioni del venticinque settembre: rischi per la sostenibilità del debito pubblico, riduzione della crescita e impossibilità di accedere al tpi, ossia lo strumento di controllo dello spread, secondo lei è davvero così? è uno scenario possibile? 

Mario Baldassarri: Intanto non è il più grande aumento dei tassi di interesse della storia perché negli anni Settanta, quando l’ inflazione era al 20%, la Banca d’ Italia allora aumentava i tassi, altro che dell’ 1%. Certamente è un aumento forte, che avviene dopo anni e anni di riduzione dei tassi, cominciata da Mario Draghi con il “whatever it takes” che ci aveva abituato a tassi quasi a zero. Tanto che i tedeschi sono sempre stati un po’ recalcitranti perché, avendo loro quote importanti delle assicurazioni e delle pensioni sempre assicurative, non si trovavano più i rendimenti. É ovvio che di fronte a un’ inflazione rimbalzata al 9%, anche per i motivi che ci siamo detti in premessa, non è che la BCE potesse continuare a fare il quantitative easing, i tassi zero, e così via. La sorpresa, che non è una sorpresa, è la dimensione dell’ aumento: lo 0,75% cioè settantacinque punti base, e come ho detto prima ogni 1% a noi  ci costa come debito pubblico 28 miliardi a regime. Ci vogliono due o tre anni per le scadenze dei titoli, però questo se lo spalmate su tutta Europa vuol dire un pesante freno ai consumi e agli investimenti. Traetene le conseguenze. Il problema qual è? è che manca una gamba in Europa, cioè il bilancio dell’ Europa federale. Tutti fanno il confronto fra BCE e Federal reserve americana, si,  ma la Federal Reserve americana ha a fianco il bilancio federale americano che è il 25% del PIL . Noi in Europa abbiamo a fianco il bilancio normale dell’ Unione Europea che è l’ 1,2% del PIL. Di fronte al Covid abbiamo fatto 750 miliardi di Next Generation Eu e sono sembrati una cosa certamente importante, grande, enorme, ma enorme rispetto al nulla che c’è. Quando è cominciata l’ invasione russa io immediatamente, credo tre giorni dopo, chiesi nel mio piccolo, ovviamente via radio radicale e quindi con una platea di questo tipo: piccola ma robusta, intellettualmente robusta, di dire subito “ma qui è peggio del Covid, quindi raddoppiate subito il Next Generation Eu, altri 750 miliardi ma con due differenze: non dateli agli Stati nazionali, dateli al primo embrione di bilancio federale degli Stati Uniti d’ Europa”. Sono trent’ anni che cerco di diffondere questo concetto, e poi bisogna finalizzarli a tre cose, alla difesa e sicurezza comune nell’ ambito della NATO, è ridicolo dire che tutti i Paesi devono fare il 2% di PIL di spese per la difesa, perché ventisette volte il 2% non fa una volta il bilancio federale europeo. Quindi rischia di essere una dispersione di risorse, cioè nessuno si rende conto ma in Europa noi abbiamo ventisette eserciti, ventisette aeronautiche, una ventina di marine, quarantadue servizi segreti. Questo polverone, questa confusione che affianca quella povera Christine Lagarde, che fa la politica monetaria della BCE. Mentre di là, negli Stati Uniti, bene o male c’è la Federal Reserve che fa la sua politica dei tassi, ma c’è il bilancio federale che pesa per il 25%. Questo è il nodo vero, strutturale che abbiamo di fronte. É chiaro che in queste condizioni l’ aumento dei tassi da solo frena l’ economia, non c’è dubbio, allora stiamo tutti attenti a vedere come va quest’ anno. C’è chi dice “quest’ anno faremo il 3% di crescita, 3,2%” ma quest’ anno è finito, ormai che facciamo il 3% o il 3,2% non cambia. Il messaggio è semplice “noi quest’ anno, a fine anno, avendo fatto il più sei qualcosa di crescita nel 2021, più tre e qualcosa nel 2022, nel 2022 torneremo al PIL del 2019”. Ma attenzione, il PIL italiano del 2019 in pro-capite rispetto a quello che era nel 2020 è l’ unico paese in Europa, l’ unico paese dell’area euro, l’ Italia, che nel 2019 ha avuto un PIL pro capite più basso in potere d’ acquisto di quello che avevamo nel 2000. Nel 2000, il PIL italiano era sopra la media europea del 15% e sopra la media dei Paesi euro dell’ 8%, mentre oggi il PIL procapite italiano è sotto la media europea del 7% e sotto la media dell’ area euro del 13%. Questo è quello che è avvenuto tra il 2000 e il 2019 e noi discutiamo “bravi abbiamo recuperato”, ma abbiamo recuperato la povertà che avevamo accumulato dal 2000 al 2019. Allora è inutile stare a discutere se quest’ anno a dicembre avremo il 3,1, il 3,2; l’ ultimo trimestre forse sarà pesantissimo, come tutti dicono, per le bollette. Ma il vero problema è che tutte le previsioni danno all’Italia l’1% di crescita dal 2023 in poi, cioè siamo tornati al 2019, ma siamo tornati a quella crescita effimera e modesta che avevamo avuto nei vent’ anni precedenti. Allora, ma come non dovevamo fare Next Generation Eu, il  Pnrr,  le riforme strutturali che ci avrebbero dato l’ impulso? Un dato che è aritmetico ma che è politico: sopra il 3% di crescita l’ Italia campa, sotto il 3% di crescita l’Italia crepa. Questa è la sintesi, poi facciano i lorsignori, non posso dire altro. Io francamente ho voluto fare questa panoramica anche storica e un po’ lunga all’ inizio perché, anche sulla base della mia esperienza di economista da cinquant’ anni ed oltre e sulla base della mia parentesi di impegno politico di dieci anni, grosso modo, la conclusione che ne ho tratto è che la valutazione destra, centro, sinistra, eccetera va fatta. Ci sono dei valori magari anche diversi eccetera, ma io da economista vado un po’ più sul concreto, quello che riscontro è che finora tutte le coalizioni che hanno vinto con alternanza nella Seconda Repubblica, alla fine quelle riforme strutturali lì-  ripeto sono trent’ anni – non gliele ho viste fare molte, anzi forse quasi nulla. Allora adesso sollevare lo spauracchio che se vince il centrodestra succede il disastro, perché se vince il centrosinistra che succede? Forse non succede un disastro né da una parte del né dall’ altra. La mia preoccupazione è che non succeda niente in ogni caso, questa è la preoccupazione. Quello che direi è che non condivido quel giudizio che lei esprimeva nel senso che, se vince il centrodestra è capace di fare le cose utili per l’ Italia? uno può dire no, uno può dire sì, uno può dire nì, cioè è la stessa cosa dall’ altra parte. Tutto qui, io credo che il cittadino debba chiedersi questo prima di esprimere la sua preferenza. Attenzione non è un caso che aumenta in modo preoccupante l’ astensione dal voto, qual è il segnale di chi si astiene dal voto? chi non trova quel tipo di risposta dice: “allora è inutile che vada a votare”. Questo è preoccupante per la democrazia, non è preoccupante se vince l’ uno o se vincerà l’ altro, in un equilibrio di potere e anche in un equilibrio dell’ alternanza, ma francamente mi preoccuperei più se chi vince ,chiunque esso sia, sarà in grado di governare per cinque anni facendo quelle riforme? Finora la risposta dopo più di vent’ anni è stata no, ma non lo dico io no, lo dicono i dati, i numeri e le esperienze concrete, non è che sono io a dire che non è stato fatto quasi nulla, sono i dati che ci dicono che anzi abbiamo peggiorato enormemente la situazione. Perché, ripeto, dal 2000 al 2019 prima del covid è l’ unico ventennio dal dopoguerra ad oggi in cui l’ economia italiana si trova peggio che all’ inizio del periodo, non è mai successo, prima crescevamo tanto soprattutto durante gli anni Cinquanta-Sessanta,  poi un po’ meno negli anni Settanta-Ottanta, poi ancora un po’ meno gli anni Novanta, ma per la prima volta dal 2000 al 2020 prima del covid il PIL procapite italiano medio si è ridotto. Voi capite che vuol dire questo in termini di redistribuzione del reddito? Perché se la media si è ridotta, e probabilmente i poveri sono più poveri e forse qualche ricco è  anche più ricco, il mio dire quindi anche in termini di equità distributiva è che una mancata crescita è dirompente sull’ equità sociale mentre una forte crescita ti dà le risorse per fare l’ equità sociale. 

Daniela Riccitella: Anche se non venissero utilizzati ulteriori fondi aggiuntivi per alimentare la spesa pensionistica, come promette soprattutto la destra è possibile continuare a mantenere un trattamento pensionistico come quello attuale sul lungo termine? Quali misure dovrebbero essere attuate secondo lei?

Mario Baldassarri:Per noi che siamo in pensione sì, per voi che dovete andare in pensione no. Questa è un’affermazione che feci nel 1995. Per rispondere a questa domanda  dobbiamo prendere come punto di partenza la riforma Dini. Su detta riforma pone uno sbarramento che si divide nel seguente modo: chi nel ‘95 ha già diciotto anni di anzianità andrà in pensione con il metodo retributivo, cioè la tua pensione e agganciata al tuo stipendio; chi invece comincia a lavorare nel  ’95 andrà in pensione con il metodo contributivo, cioè la tua pensione non dipende più dal tuo stipendio ma dipende dai contributi che tu hai accumulato nella tua vita; infine chi si trova in mezzo tra i due andrà in pensione con un sistema misto, in parte retributivo e in parte contributivo. In più bisogna porre l’attenzione sul fatto che, in entrambi i sistemi, i contributi pagati quest’anno andranno a pagare le pensioni dello stesso anno. Anche nel sistema contributivo il fatto che un singolo individuo ha pagato una certa cifra di contributi per uno specifico anno, servirà esclusivamente a fare il calcolo di quanto gli spetterà di pensione nel momento in cui è arrivato alla fine della sua carriera lavorativa. Facendo qualche calcolo, implementando questa policy, il primo ad andare in pensione interamente con il sistema contributivo sarebbe avvenuto nel 2031 data ormai non troppo lontana, anche se è una transizione che ha avuto bisogno di molto tempo. Altro fattore fondamentale da notare è che con il sistema contributivo non vi è più la necessità di un’età pensionabile stabilita per legge. Con il  contributivo al momento in cui un individuo fa domanda di andare in pensione, può richiedere il calcolo dei contributi che ha pagato combinato a quanti anni di pensione si prevedono, in termini aspettative di vita, e nel caso in cui il calcolo sia favorevole allora può accettare la pensione, al contrario può decidere di continuare a lavorare. Ovviamente in questa situazione specifica il vincolo necessario da introdurre è che la prospettiva di pensione del singolo deve superare la pensione minima sociale.   

Alice Polzoni: Nel caso del sistema contributivo come risolvere il problema della differenza di classe, e ciò che ne deriva in termini di possibilità di andare in pensione ad età diverse sulla base solo ed esclusivamente di quanto si è guadagnato durante la propria vita?

Mario Baldassarri: Io mi preoccupo più di un altro aspetto, cioè che il sistema così com’è ai giovani da trent’ anni in su non darà la pensione. Non tanto e non solo per colpa del sistema contributivo, ma perché il sistema contributivo si cala su una realtà lavorativa che comincia dieci anni dopo rispetto alla nostra. Io ho iniziato a lavorare a 16 anni e poi più seriamente a 23 dopo la laurea, al giorno d’oggi ciò non è possibile, e inoltre non è un caso che anche il periodo di formazione di una famiglia si sia spostato di 10 anni. Questo è il primo problema, il secondo aspetto è che in questo momento storico per un giovane che si inserisce nel mercato del lavoro per un lungo periodo di vita la tipologia di lavoro è e sarà molto frammentata (lavoro precario e a tempo determinato per almeno altri 10 anni di vita). Arrivando ad una condizione nella quale si vede uno spezzettamento nei contributi e un ingresso nel mondo del lavoro posticipato di 10 anni.  Ciò che c’è di positivo è che l’aspettativa di vita si è allungata, è chiaro dunque che se prima vivevamo fino a settanta anni, e adesso invece, viviamo fino a ottantacinque il singolo, a parità di contributi, avrà quindici anni più di pensione da riscuotere. In questo caso il mio ragionamento rientra nel lasciare liberi i cittadini di scegliere quando andare in pensione perché se il reddito che mi dà la pensione mi basta, perché lo stato dovrebbe impedirmelo? Ovviamente qui si pone la necessità di dimostrare ai fini dei conti pubblici che quella pensione che tu ricevi è abbastanza pe il tuo sostentamento. Il fatto che il ricco sta meglio ed il povero sta peggio vale e varrà sempre, ma se si vuol non solo in termini pensionistici ma anche, ex ante, in termini di lavoro. Oggi abbiamo un mercato del lavoro che è molto frammentato, ma che è un simile a quello che avevamo nelle generazioni precedenti. L’italia forse è un caso unico al mondo, ma tutt’ora il mercato del lavoro continua imperterrito a basarsi sulle conoscenze. E questo è un problema notevole. In Italia l’ ingresso nel mercato del lavoro non avviene, nella maggior parte dei casi, attraverso un ufficio di collocamento o un navigator, invece quasi sempre, attraverso qualcuno che conosco che mi può segnalare per fare un colloquio. Dunque, molto spesso ci troviamo in un è un mercato del lavoro che si basa sulla conoscenza non professionale, e su corridoi di amicizie. La controprova è che il 5% di giovani italiani brillantemente laureati in Italia vivono e lavorano al di fuori dell’Italia. Facendo due conti in 20 anni circa un milione di giovani italiani sono andati all’estero, ed ognuno di loro ci è costato un milione di euro di investimento in capitale umano, noi abbiamo mandato fuori dall’Italia mille miliardi di capitale umano. Ovviamente se questo dovesse succedere per un anno non sarebbe un problema ma se lo estendi per 20 anni come è successo, vai a notare che questo ventennio corrisponde esattamente al periodo in cui il PIL pro-capite è diminuito, insomma abbiamo esportato capitale umano e importato gasolio e petrolio. La politica pone poca attenzione su questi fatti, perché questi fenomeni hanno bisogno in primis di una visione ed in secondo piano di un orizzonte di visione che si estenda a piani di cinque/dieci anni. Questo ovviamente risulta impossibile nel momento in cui la politica ha una visione di sei mesi. In cui le soluzioni che vengono proposte sono bonus singoli che tuttavia sommati e strutturati insieme non potranno mai sostenere la necessità di una riforma che preveda una visione unitaria e d’insieme per risolvere un problema come quello attuale. E purtroppo nel tempo, non solo la politica, ma anche l’intera classe dirigente italiana ha perso questa capacità di visione. L’energia, per esempio, è un perno fondante del sistema economico. Il capitale umano, la scuola, la formazione, l’università, la specializzazione post-laurea è l’altro perno. Perché uno è il perno del capitale fisico e l’altro è il perno del capitale umano. Se noi ci mettiamo il cappio al collo con il gas russo e in venti anni facciamo andar via 1 milione di persone della fascia medio alta, ma scusate è un caso che Draghi, Io, Visco, e altri negli anni Settanta siamo stati i primi ad andare a fare il dottorato all’estero? ma perché non c’era in Italia, e dovevi andare fuori ma negli anni successivi c’è stata un po’ di offerta italiana. Ma è possibile che questo 5% che va all’estero, così come noi negli anni Settanta, sta poi nel 5% top sul confronto internazionale? Cioè questi ragazzi vanno all’estero e sono bravi, ma non perché lo diciamo noi, ma perché nella loro classe magari trenta, quaranta ragazzi stanno anche loro nel 5% top. Il che vuol dire che noi siamo, tutto sommato, capaci di formare le élite, la punta di diamante. Il problema dell’università italiana è che è capace di formare il 5% top ma questo ha due conseguenze: che ne facciamo del 95% non top?. Primo, il 5% top va all’ estero ma al 95% che gli raccontiamo? Secondo, capite che la selezione del 5% top è classista e profondamente iniqua? Perchè se andate a vedere l’estrazione sociale del 5% top vedrete che questo è composto principalmente dalle famiglie con reddito medio-alto o comunque benestanti. Bisogna considerare anche questo aspetto. Non solo abbiamo esportato 1 milione di giovani che valgono 1000 euro l’uno, e quindi 1000 miliardi e così via, ma dentro quella fascia c’è una selezione perversa sul piano sociale perché il 95% che rimane in Italia contiene tutti quelli delle classi sociali medio-basse, salvo eccezioni ovviamente. Ora io non voglio fare il demagogo però questa è la sintesi, allora quando uno mi parla di equità sociale o di problemi redistributivi io sono il primo a dire che è sacrosanto però è demagogia fornire analisi e proposte che tutto fanno meno che affrontare sul serio quell’ argomento.

Federico Talè: Il caso greco, dopo la crisi del 2010, ha portato tante difficoltà all’ economia greca per i tagli alla spesa pubblica. Volevo sapere se questa situazione avesse stimolato un dibattito e quale fosse la sua opinione a riguardo. Calato nella realtà italiana, quali potrebbero essere gli estremi di politiche volte a tagli molto sostanziosi di spesa corrente? Perché penso che quella greca fosse un’economia che si basava molto sul moltiplicatore della spesa corrente e poco sugli investimenti. In secondo luogo, volevo sapere la sua opinione riguardo al concetto di una patrimoniale, l’ha accennato prima che dare la “mancetta” di 10 mila euro non serve a niente, però in generale se questo, che era anche uscito fuori l’anno scorso col Governo Draghi la proposta della riforma tra l’altro di cui si parla da un sacco di anni e che però non è stata mai portata avanti. Quali sono le sue opinioni a riguardo?.

Mario Baldassarri: allora il caso Grecia, così come lo si è chiamato negli anni, poggia su due ipocrisie. La prima fu commessa dai governi greci, noi ci siamo trovati di fronte a statistiche ufficiali fatte proprie dall’ Eurostat, in cui la Grecia dichiarava 4% di PIL  di deficit pubblico. Nell’ arco di nove mesi, il numero per l’ anno prima, non per l’ anno in corso, fu aggiornato al 14%, quindi non era vero il 4% ma era vero il 14%. Quindi, la prima ipocrisia è greca, della classe politica greca, dei governi greci e non della gente. La seconda ipocrisia, è che si è ritardato quasi di due anni l’intervento a sostegno della Grecia per permettere alle banche tedesche in particolare e anche francesi, meno quelle italiane, di uscire dal rischio Grecia perché avevano comprato una valanga di titoli di Stato greci. Quindi, prima si è lasciato che queste banche se la gestissero e poi si è fatto l’intervento. Allora, la prima ipocrisia ha fatto emergere all’ improvviso un problema serio; la seconda ipocrisia ha coperto, ritardando l’intervento, il che vuol dire che è stato un intervento molto più drastico di quello che poteva essere due anni prima. Io ho fatto un conto, due anni prima con 40 miliardi sostenevamo la Grecia, senza farla passare per lacrime e sangue. Alla fine ci è costato 250 miliardi. Ecco queste sono le dimensioni relative, dopodiché va detto però che la Grecia, dopo quel bagno di sangue, si è ripresa bene, e attenzione nel 2019 i dati che ho dato prima, la Grecia aveva un PIL pro capite, di poco, ma superiore al 2000. Quindi, è andata su, è scesa giù, è crollata, però alla fine è riuscita a recuperare quello che aveva nel 2000. L’ unico Paese che non ha fatto questo si chiama Italia che nel 2019 aveva il PIL pro-capite inferiore a quello del 2000. Quindi questo è un po’ il fatto storico del caso Grecia. 

Patrimoniale e catasto, allora, il catasto è una base necessaria per poter avere un’ equa tassazione in qualunque sistema al mondo, perché? Perché è la fotografia delle proprietà immobiliari, terreni, case, eccetera. Quindi è sacrosanto e urgente rivedere il catasto per una ragione, non di aumento del gettito, come ha detto Draghi giustamente, ma di equità, perché se io vado in via Po e mi trovo un appartamento di centoventi metri quadrati però, all’ Olgiata ho i parametri catastali di trenta-quaranta anni fa, ma scusate qualcosa è successo negli ultimi quarant’anni sul piano immobiliare, e se ho delle case che non esistono per il catasto però hanno l’Enel, l’acqua, la luce no? le cose sono cambiate enormemente quindi la revisione del catasto è un fatto sacrosanto per ragioni di equità, ripeto a parità di gettito ma è chiaro che va un po’ redistribuito per la realtà che uno vive. Per quanto riguarda la patrimoniale, io parto da un bellissimo articolo di Luigi Einaudi del 1936 che è una pietra miliare nella storia economica del Novecento, casualmente italiano, ma la scuola italiana di finanza pubblica è la più prestigiosa al mondo, parte dal milleottocento cioè passa per De viti, De Marco fino ad Einaudi. E cosa dice Luigi Einaudi? Quell’ articolo si intitola “La doppia tassazione del risparmio” e giustamente, anche in termini teorici dice: se io lavoro, ho dei redditi per tutta la vita, sui quali ho pagato le tasse, questo non è indifferente. Io su quei redditi le tasse le ho già pagate e anche se poi ci ho comprato la casa, io già le ho pagate le tasse, perché mi devi tassare la casa che è il frutto del risparmio netto delle tasse che ho già pagato? Einaudi dice doppia tassazione del risparmio cioè se tu tassi il reddito e poi tassi il patrimonio hai una doppia tassazione sul risparmio. Allora questa è la base teorica, poi c’è la base empirica. Tutti quelli che propongono la patrimoniale, non a caso la mettono in collegamento con l’ evasione. Quindi dato che non riesco a verificare quanto reddito produci, ti controllo quando il reddito si è trasformato in mattone. Non mi sembra una giustificazione corretta ma è una dichiarazione di impotenza da parte del fisco e dello Stato, chiaro? Ciò detto, in Italia c’è la patrimoniale, sui depositi bancari si paga credo il 28%, la tassa sul deposito bancario non è una patrimoniale calcolata ogni anno sulla media del deposito che hai. L’Imu come in tutti i sistemi fiscali al mondo, per esempio quello federale americano le due grandi imposte personali per le persone fisiche e per le società fanno capo al bilancio federale e la grande imposta sulle vendite che in America si chiama Sales tax, da noi si chiama IVA, è agli Stati in America e alle regioni in Italia. Tutti i comuni si basano sull’ imposta sulla casa compreso il comune di New York dove l’Imu di New York è cinque volte l’Imu di Roma. Quindi dal punto di vista dell’ assetto fiscale ha senso assegnare a ogni livello di governo le sue imposte su cespiti precisi, va bene? sull’Imu c’è, qualcuno diceva “togliamola alla prima casa”, qualcuno la toglie, qualcuno rimette, cioè sulle case c’è l’IMU, sui depositi bancari c’è l’ imposta sui depositi bancari, sui titoli di Stato c’è la cedolare ecco allora, attenzione, l’ imposta patrimoniale io chiedo sempre, “che vuol dire? che togli queste che già abbiamo e le assumi, le sintetizzi in una nuova imposta patrimoniale che è la somma di queste qui?”. Questo è il punto, oppure “alla francese” qualcuno dice, “l’imposta sulle grandi ricchezze” e lì è affascinante, perché sulle grandi ricchezze è giusto, come Robin Hood, solo che noi qui, in realtà, abbiamo i Robin Hood al rovescio che prendono i soldi dei poveri e li trasferiscono ai ricchi. Questi Robin Hood non è che mi piacciono molto. Allora l’imposta sulle grandi fortune, come l’hanno chiamata in Francia, va benissimo colpiamo l’imposta sulle grandi fortune che comunque è soggetta alle critiche che ho appena detto, e cioè se colui che ha accumulato una grande fortuna ha già pagato le tasse, le ha già pagate e se invece non lo ha fatto gliele dovevi far pagare, non è che si può tamponare ex-post. Ma l’imposta sulle grandi fortune o è sul serio sulle grandi fortune e allora sarà moralmente ineccepibile ma quantitativamente irrilevante, quantitativamente irrilevante perché se tu fai una tassazione patrimoniale sopra i 5 milioni, che gettito ottieni? non lo so, fate voi quattro conti, certo può essere ragionevole sul piano morale, con tutte le riserve che ho detto, però dal punto di vista delle quantità è demagogia pura. Se invece per imposta patrimoniale sulle grandi fortune intendi  sopra i 300 mila euro,  allora non va bene perché in Italia, in tutte le grandi città dove vivono 20 milioni di persone Milano, Roma, Torino, Bologna, Palermo, Catania, Napoli 300 mila euro non sono una grande fortuna. Ecco allora ancora una volta e chiudo su questo, i titoli da soli non bastano cioè per imposta patrimoniale bisogna prima spiegare bene cosa si intende, come la si vuole attuare, il perché e quanto gettito dà, e anche che si farà con quel gettito. 

Quindi, l’ approccio se posso permettermi “nostro” è quello di capire per conoscere, conoscere per deliberare e questo tipo di ragionamenti, intanto serve per capirci tra noi, poi se tra noi riusciamo a far capire qualcun’ altro è tutto di guadagnato e vuol dire che in qualche misura diffondiamo,  come le formichine: loro non hanno questi successi clamorosi che travolgono grandi barriere, però campano da qualche decina di migliaia di anni in un’ organizzazione un po’ troppo militare, francamente, però il vero problema è che abbiamo più cicale che formiche in giro. Grazie.  

Giacomo Melilla

Qui è Giacomo Melilla, membro della tesoreria del Partito Radicale e siamo giunti alla conclusione del nostro evento, una campagna elettorale fondata sulla spesa pubblica, chi pagherà appunto questa spesa. Concludiamo ringraziando il Professore che ci ha deliziato e omaggiato con la sua presenza anche nel giorno del suo compleanno, tutta la platea che ci ha ascoltato, e ovviamente tutti radioascoltatori e tutti quelli che ci hanno seguito su Facebook. Per concludere si può dire che tendenzialmente una campagna elettorale fondata come se non ci fosse un contesto intorno, come se non ci fosse un contesto internazionale, e come se non ci fosse una storia di cui tener conto e questo è un problema e i problemi li abbiamo elencati oggi. Noi quello che proveremo a fare è sicuramente tesoro di questa esperienza, di questa lecture e di questa opportunità che abbiamo avuto oggi al fine di proporre delle proposte a tutti i partiti e sperando che possano essere accolte prima del venticinque settembre. grazie mille grazie a tutti i telespettatori.

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