La questione che vede scontrarsi coloro che usa chiamar garantisti con quanti pensano che almeno per i condannati per certi delitti occorrerebbe incarcerarli e “gettar via la chiave”, pare sia ora oggetto di un intervento urgente del governo, con decreto legge.
Si tratta del c.d. ergastolo ostativo e della norma che esclude il detenuto dai benefici penitenziari previsti dalla legge, che il giudice di sorveglianza concede o nega valutandone la condotta e l’evoluzione della sua personalità nel corso della esecuzione della pena.
Per i condannati a pena detentiva per una serie di reati di varia portata, la legge ora assoggetta la possibilità di concedere alcuni benefici, tra cui la liberazione condizionale dell’ergastolano, alla condizione della collaborazione che il condannato dia alle autorità per la ricostruzione dei fatti e delle responsabilità.
Non si tratta solo dei condannati per fatti di mafia, ma il dibattito si accentra su questi casi per la loro evidente gravità ed anche per la forza del vincolo mafioso, capace di mantenersi anche a lungo nonostante la detenzione. Sia la Corte costituzionale che la Corte europea dei diritti umani hanno già dichiarato che contrasta con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti umani la normativa che stabilisce una presunzione assoluta di permanenza del vincolo associativo criminale nel caso in cui il detenuto non collabori con le autorità.
Non si nega naturalmente che il rifiuto di collaborare sia elemento da tenere in considerazione da parte del giudice, ma si afferma che il suo significato vada valutato in concreto, con tutti gli elementi che riguardano lo specifico detenuto, tra i quali i motivi (ad esempio, il pericolo per sé o per i congiunti) che lo spiegano. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’attuale legislazione non comporta – come invece sembra dal dibattito politico – l’automatica applicazione dei benefici e della liberazione condizionale, ma invece rinvia la valutazione ad un giudizio particolarmente rigoroso da parte dei giudici di sorveglianza.
La Corte costituzionale ha già dichiarato che “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”.
All’art. 27 la Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tutte le pene, qualunque sia il reato commesso. E, proprio con riguardo ad uno dei benefici previsti dalla legge, quello dei permessi premio, la Corte ha già dichiarato la incostituzionalità della loro esclusione senza eccezione se il detenuto non è collaboratore. Poiché i permessi, come in generale i benefici, contribuiscono alla risocializzazione del detenuto. Ma ora la questione della presunzione assoluta di mantenimento dei vincoli associativi criminali riguarda un altro beneficio. Si tratta della liberazione condizionale che, per gli ergastolani, è possibile dopo ventisei anni di carcere.
La Corte costituzionale ha già affermato che la presunzione assoluta non è compatibile con la Costituzione, ma invece che dichiararne la incostituzionalità e quindi eliminarla, con l’ordinanza di rinvio del 2021, ha sospeso il giudizio per dar tempo al Parlamento di provvedere ad un complessivo esame della legislazione riguardante la criminalità associata di tipo mafioso. Ma il Parlamento non è stato in grado di provvedere ed un primo rinvio di un anno è passato invano. Un secondo rinvio viene a scadere il prossimo 8 novembre, quando la Corte ha fissato l’udienza che dovrebbe portarla a pronunciare sentenza. Una sentenza già scritta, poiché la Corte stessa ha già detto che la norma di cui si tratta non è costituzionale e il Parlamento non è stato in grado di modificarla.
Per impedire una tale sentenza il governo pare ora intenzionato a modificare la norma oggetto del giudizio di costituzionalità, ciò che toglierebbe di mezzo la norma su cui la Corte costituzionale dovrebbe pronunciarsi con la sentenza. La nuova norma potrebbe naturalmente a sua volta divenire oggetto di una nuova eccezione di costituzionalità, ma i tempi si allungherebbero e l’esito del giudizio sarebbe incerto. L’intervento legislativo governativo sostituirebbe quello fisiologico del Parlamento e potrebbe essere persino apprezzato, come segno di attenzione verso l’esigenza di revisione della legislazione segnalata dalla Corte, con i suoi due rinvii.
Ma ciò a condizione che il contenuto della nuova legge rispetti la ragione della incostituzionalità della legge presente: la inaccettabilità di una presunzione assoluta come quella ora stabilita. Se invece, pur modificandone il testo, se ne confermasse la portata concreta, allora saremmo di fronte ad una forzatura governativa e ad un problema di correttezza, non solo nei confronti della Corte, ma prima ancora della Costituzione. Ed è purtroppo quel che parrebbe avvenire, se il decreto legge riprendesse il testo già approvato dalla Camera il 31 marzo di quest’anno.
Il testo approvato dopo infinite discussioni, alla ricerca di tali e tanti vincoli da imporre al giudice che deve decidere, fa pensare che la possibilità di superare la presunzione che esclude dai benefici sia teorica, ma non concreta. In questo senso sembra indirizzarsi la portata delle condizioni che il testo della Camera stabilisce, per il caso di non collaborazione.
Si tratta tra l’altro della raccolta di elementi che consentano di escludere non solo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e “con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, ma anche “il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Ove dalla istruttoria emergano indizi in tal senso, si richiede al condannato di fornire idonei elementi di prova contraria. Ma come si può provare l’insussistenza del pericolo di un futuro evento di tal fatta? Non è questo un modo per rendere impossibile quello che pur si fa mostra di voler ammettere? Con ciò rifiutando in concreto ciò che la Costituzione richiede?
Di Vladimiro Zagrebelsky – La Stampa, 31 ottobre 2022