Un cittadino di un paese terzo che è affetto da una malattia grave non può essere allontanato se, in mancanza della terapia adeguata nel paese di destinazione, rischi di essere esposto ad un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore associato a tale malattia. Lo ha stabilito dal Cgue con la sentenza 22 novembre 2022 nella causa C-69/21.
Il caso esaminato – Un cittadino russo che ha contratto, all’età di 16 anni, una rara forma di cancro del sangue è attualmente in cura nei Paesi Bassi. La sua terapia medica consiste, in particolare, nella somministrazione di cannabis terapeutica a fini analgesici. L’uso di cannabis terapeutica non è tuttavia autorizzato in Russia.
Tale cittadino ha presentato varie domande d’asilo nei Paesi Bassi, l’ultima delle quali è stata respinta nel 2020, e ha adito il Rechtbank Den Haag (Tribunale dell’Aia) con un ricorso contro la decisione di rimpatrio che è stata adottata nei suoi confronti. Egli ritiene che debba essergli rilasciato un permesso di soggiorno o che, quantomeno, debba essergli accordato un rinvio dell’allontanamento in quanto la terapia a base di cannabis terapeutica nei Paesi Bassi è per lui a tal punto essenziale che non potrebbe più condurre una vita dignitosa se tale terapia fosse interrotta.
Il Tribunale dell’Aia ha deciso di rivolgersi alla Corte per stabilire, in sostanza, se il diritto dell’Unione osti all’adozione di una decisione di rimpatrio o di un provvedimento di allontanamento in una fattispecie di questo tipo.
La decisione della Cgue – Nella sentenza depositata oggi, la Corte dichiara, alla luce della propria giurisprudenza e di quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro adotti una decisione di rimpatrio o proceda all’allontanamento di un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno è irregolare e che è affetto da una grave malattia, allorché sussistono gravi e comprovati motivi per ritenere che il rimpatrio di tale cittadino possa esporlo, a causa dell’indisponibilità di cure adeguate nel paese di destinazione, ad un rischio reale di un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore causato dalla sua malattia.
Detta condizione presuppone, in particolare, che sia accertato che nel paese di destinazione non possa essergli legalmente somministrata l’unica terapia analgesica efficace e che la mancanza di tale terapia lo esporrebbe a un dolore di tale intensità da essere in contrasto con la dignità umana in quanto potrebbe provocargli disturbi psichici gravi e irreversibili, o addirittura condurlo al suicidio.
Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2022