Se c’è una via politicamente stretta, è quella per la depenalizzazione. Più difficile da percorrere non la si potrebbe immaginare. Persino se a provarci è un giurista dalla cultura e dall’acume raffinatissimi come Carlo Nordio.
Il nuovo ministro della Giustizia ha affrontato di petto la questione un minuto dopo il giuramento: uscito dal Quirinale lo scorso 22 ottobre, si è concesso ai taccuini e ha comunicato la sua prima intenzione: “La revisione del codice penale, firmato da Mussolini e da Re, ancora in vigore, cosa di cui nessuno parla”. Nordio è un analista sottile, capace di cogliere lucidamente verità che altri scansano con cura. Ma la missione di superare il Codice Rocco si annuncia, anche per lui, difficile. Difficilissima.
Nei giorni successivi all’insediamento, il guardasigilli ha raccolto un endorsement prezioso dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “I precedenti tentativi hanno prodotto poca cosa, in questo paese è difficile depenalizzare. La norma penale è anche simbolica: se si depenalizza, molti hanno la sensazione che la società resti priva di difesa. Così non è, ma c’è questo problema di consenso. Se il ministro ci riuscirà noi saremo con lui”. E Santalucia non è il primo leader della magistratura associata a esprimersi in questi termini. Anzi, un suo recente predecessore, Francesco Minisci, un pm, è stato protagonista di un tentativo forse tra i più seri compiuti negli ultimi anni sul fronte delle depenalizzazioni: la piattaforma comune predisposta a inizio 2019 insieme con l’Unione Camere penali nell’ambito del “tavolo tecnico” istituito a via Arenula dall’allora guardasigilli Alfonso Bonafede. Penalisti e Anm non si limitarono a un generico scambio di vedute: produssero una bozza di articolato, insieme con i tecnici del ministero.
Nordio queste cose le sa. Ma, passato l’entusiasmo del giuramento, riflette su quanto siano difficili da praticare la revisione del Codice Rocco e la deflazione dei reati. Riconosce che sì, è necessario intervenire per decongestionare sia il sistema penitenziario che la macchina penale. Ma sa pure, il ministro, che non è facile né depenalizzare né “decarcerizzare”, perché c’è da fare i conti con quell’ineluttabile riflesso dell’opinione pubblica, che inorridisce nel vedere una persona condannata, o anche solo accusata di condotte oggi previste come reati, a piede libero anziché a scontare la pena, o una misura cautelare, dietro le sbarre. Il nemico della depenalizzazione è dunque, come dice Santalucia e come sa benissimo il guardasigilli, il consenso. Se lo si vuole inseguire, non si tocca il Codice Rocco. Anzi lo si ingolfa. Il primo atto del governo Meloni è consistito nell’aggiungere una fattispecie penale anziché sfrondare quelle esistenti: il “reato di rave”. Che continua a tenere impegnati l’esecutivo e i senatori della commissione Giustizia nello sforzo di tipizzarne i tratti per evitare che, un giorno o l’altro, venga utilizzato per compromettere il principio costituzionale della libertà di riunione.
Ma allora quale può essere, se esiste, la via che Nordio può percorrere per trascinare la maggioranza lungo la strada della depenalizzazione, e del superamento del Codice Rocco? Forse due spiragli ci sono. Il primo è certamente nella convinta adesione al progetto non solo della professione forense ma anche dei magistrati. Gli avvocati spesso notano, per citare il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, che se loro stessi si impegnano tanto perché si superi quel sovraffollamento dei reati, che pure produce molti processi e dunque molti incarichi professionali, vuol dire non solo che l’avvocatura è pronta ad anteporre l’interesse generale a quello di categoria, ma anche che il sovraccarico della macchina penale è insostenibile. Riguardo ai magistrati, e a proposito della già citata piattaforma predisposta nel 2019 dall’Anm di Minisci con i penalisti già all’epoca guidati da Caiazza, vale la pena di segnalare che, nel documento di sintesi raccolto dai tecnici di via Arenula presenti al “Tavolo”, le proposte concrete sulla depenalizzazione provenivano proprio dal “sindacato” delle toghe. Al punto “5 h” di quella bozza si parla di “Depenalizzazione condizionata”, su cui, recita il verbale, “c’è stata convergenza di massima”. Si legge ancora in quel documento: “Nel corso della discussione si è convenuto in aggiunta che l’interessato potrà esperire gli ordinari rimedi di tipo amministrativo per contestare l’integrazione dell’illecito. La decorrenza del termine per l’adempimento prescrizioni/pagamento decorrerà solo successivamente all’esito infruttuoso dell’opposizione amministrativa”. Ci si era posti il problema di bilanciare l’efficacia nella sanzione, traslata sul piano amministrativo, e il diritto a vedere estinte le contestazioni dopo un certo lasso di tempo, come per la prescrizione nel processo penale.
Non bastò: della depenalizzazione promessa nulla sopravvisse nel ddl di Bonafede né nel restylling che ne fece Marta Cartabia. Prevalse il timore dei partiti per un’opinione pubblica che avrebbe potuto allarmarsi nel sapere che qualche fattispecie come quelle relative agli abusi edilizi, da sempre in cima alla lista di quelle da derubricare ad illecito amministrativo, era stata depennata dal novero dei reati. E partiti come Fratelli d’Italia e la Lega sembrano tuttora assai sensibili allo spettro dell’iperreattività sociale.
Eppure la risposta alle condotte illecite non può essere sempre penale. A cosa serve un catalogo di reati così esteso, per giunta continuamente aggiornato “in peggio” (si pensi solo alla discutibilissima idea dell’omicidio stradale, divenuta legge nonostante l’ordinamento già fornisse gli strumenti per punire con severità chi uccide per essersi messo alla guida in stato di alterazione psichica)? E però forse la verità incontrovertibile a cui può aggrapparsi Nordio per convincere innanzitutto gli elettori, e quindi i partiti del centrodestra, è proprio in un concetto molto caro all’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni: la certezza della pena. Come la si può ottenere, se l’elenco delle fattispecie incriminatrici è così vasto da trasformare di fatto l’obbligatorietà in discrezionalità dell’azione penale? Come non rendersi conto che non può esistere una macchina giudiziaria in grado di perseguire tutti gli illeciti previsti come penali, e che, quindi, molte pene anziché “certe” diventano impossibili?
Ecco, forse la strada è questa. Nella “certezza” che può essere conseguita solo se regredisce la pretesa di colpire tutto con la sanzione penale. Nordio lo sa. Ora è un po’ più pessimista di quando, appena un mese fa, ha giurato al Colle. Ma magari la difficoltà nel conseguire gli obiettivi fissati dal Pnrr, ridurre del 25 per cento il numero delle pendenze penali entro il 2025, comincerà ad emergere. E se la maggioranza dura quanto assicura di poter durare, il 2025, per Nordio, non è così lontano.
Di Errico Novi- Il Dubbio, 28 novembre 2022